Pubblichiamo il testo integrale della Relazione del Presidente, Roberto Di Vincenzo, introduttiva dei temi che saranno messi in discussione in occasione dell'Esecutivo Nazionale della Fegica, già convocato per il prossimo 26 settembre.
Il momento storico che la nostra Categoria sta vivendo è sostanzialmente caratterizzato dalla paura.
Paura del domani, dell'incognito, dello strapotere delle compagnie petrolifere che sembrano poter disporre, a loro piacimento, del futuro di ciascun Gestore.
Quel potere assoluto fatto di "ricatti commerciali", di contratti che scadono, di improbabili clausole di recesso, di precarietà, di incertezza di un futuro che, quand'anche carico di incognite, sembra però lasciare in vita uno "straccio di speranza". E, come la mitologia ci ha raccontato, fu proprio la speranza a rimanere nel fondo del vaso di Pandora, dopo che tutti i "mali" furono fuggiti per invadere il mondo.
Si è cioè ingenerata -fra compagnie e Gestori- quella che viene comunemente definita la "Sindrome di Stoccolma", un atteggiamento psicologico di frustrazione che vede “l'ostaggio” difendere il suo “sequestratore”, il suo "aguzzino", inveendo contro coloro che intervengono per restituirgli la libertà e la dignità di uomo libero.
Per giustificare questa condizione di “regressione psicologica", evidentemente illogica, si sono esercitati moltissimi studiosi che, alla fine, hanno dovuto concludere come la lunga frequentazione fra due soggetti fra loro evidentemente antitetici, alla fine rischia di produrre quella identificazione fra "vittima e carnefice" che cancella ogni differenza di stato e rende perfettamente accettabile una condizione di subordinazione totale ed acritica che, in una condizione di normalità, verrebbe respinta. In altre parole, si consolida ed accetta, quando si è affetti da tale “sindrome”, un sistema di relazioni interpersonali improntate alla negazione delle libertà (ed espressività) dell’individuo “prigioniero”.
E' proprio questa la deriva irrazionale che si sta producendo, giorno dopo giorno, nella nostra Categoria. Nel nostro settore.
I Gestori, in altre parole, preferiscono aderire alle tesi di una controparte arrogante e “liberticida”, piuttosto che rivendicare per se stessi quella libertà di ragionare e svolgere il proprio lavoro con serenità e dignità. Anche rinunciando, a priori, agli strumenti della solidarietà fra uguali ed all’iniziativa collettiva.
Si presume, cioè, che un tale atteggiamento “remissivo” possa garantire la continuazione di quel rapporto che, alle condizioni date, lega “vittima e carnefice” allo stesso destino; un “contratto” in cui la sperequazione dei ruoli e delle opportunità è talmente sbilanciata a favore dell’industria petrolifera (e dei retisti) che rende il rapporto stesso precario e subordinato alle “bizze” della parte contraente che da tale situazione trae tutti i vantaggi (non certo il Gestore). Anche abusando del diritto.
In questo quadro, si è fatta strada -nella Categoria- la tendenza a nascondersi dietro il classico “cerino” dell'ineluttabilità, del bisogno, del "tengo famiglia", della necessità di superare quella condizione di discriminazione marginalizzante verso cui molti Gestori vengono sospinti per essere "ammansiti", rabboniti e finanche “minacciati” di ritorsioni, per tentare un radicamento logico e giustificazioni a comportamenti evidentemente contraddittori, confusi ed in palese contrasto con i propri interessi. Quelli che si “sacrificano” adesso ma, soprattutto, quelli che produrranno effetti sul domani.
Ad essere messi in discussione -deve essere chiaro- sono i nuovi equilibri e i nuovi “rapporti di forza” che vedranno i Gestori soccombenti -se dovesse perdurare questo “sonno della ragione”- e confinati in un ridotto di individualità vocianti e senza prospettiva. Insomma non più una Categoria ma una sommatoria di “diversità genetiche” (magari funzione delle “tipologie di vendita”) fondate sull’esasperazione di un’individualità, artatamente costruita e fomentata dai “proprietari degli impianti”, per ampliare la divisione fra i Gestori e ricacciare la solidarietà in fondo alla memoria. Divide et impera.
E’ sufficiente leggere il dibattito, in corso in questi mesi sui “forum” aziendali e non, per rendersi conto di come questa realtà si vada consolidando. Sembra una torre di Babele dei linguaggi, della “disperazione”, della protesta, della rivendicazione estemporanea nella quale ognuno ha la sua risposta individuale e tutti si schierano contro tutti gli altri. Ciò a maggior compiacimento e vantaggio di petrolieri e retisti che considerano, da interessati spettatori, come la loro politica stia producendo effetti profondi. “Mutazioni genetiche”, appunto, nel modo di sentire ed approcciare la realtà dei fatti.
Sembra assurdo ma, la decadenza dei valori di solidarietà e dignità della persona come soggetto portatore di legittimi interessi, determina anche a questa inaccettabile contraddizione.
Certo non c’è da stare allegri perché la divisione, l’atomizzazione di una Categoria che, sulle sue spalle (i petrolieri si sono sempre guardati da assumere un’iniziativa a favore dell’intero comparto) ha garantito sviluppo e profitti a questo settore, alla fine rischia di esplodere in una “rabbia” incontrollata (come è già accaduto quarant’anni fa’) che può travolgere tutto. Tutto e tutti. Anche quei dirigenti aziendali che immaginando di essere “comandanti” piuttosto che “mozzi”, fingono di non accorgersi che sono a bordo di un moderno “Titanic” alla deriva. Ciononostante continuano a pontificare contro i Gestori. Senza però perdere il sorriso e l’affabilità mentre stringono il cappio intorno al collo delle loro “vittime”.
Nonostante questi atteggiamenti “arrendevoli” siano abbastanza diffusi, alcuni Gestori hanno stoicamente resistito (alle minacce come alle lusinghe ed al tentativo di emarginazione) delle compagnie petrolifere, ritenendo che fosse perpetrato, a loro danno ed a danno della Categoria, un vero e proprio sopruso ed una illegittima "aggressione" ai propri ed altrui diritti. Anche senza voler rivendicare il ruolo di moderni “Atlante”. Senza voler portare il mondo sulle spalle.
E' prevalsa in questi Gestori (che non sono eroi), la semplice idea che i diritti non si vendono. Non si barattano con “qualche spicciolo”, destinato a rientrare nelle casse aziendali in poco tempo sotto forma di partecipazione a sconti o a campagne promozionali di marchio, perché senza diritti non può esistere alcun futuro.
In questi Gestori si è, cioè, fatto strada il convincimento che proprio nel rispetto dei diritti dei singoli risiede la condizione stessa degli uomini liberi di essere e rimanere tali. Senza piegare la testa agli umori ed ai voleri di quello che al momento appare come il più forte (quante dittature sono cadute! quanti Despota sono stati spazzati via dal furore popolare!).
In ballo, non ci sono solo gli egoismi dei singoli. C'è il futuro di un'intera Categoria. Di uomini e di donne, di figli e di famiglie, di sogni e di speranze di quanti hanno investito tutto ciò che avevano in un'attività che fornisse loro una prospettiva. Un futuro che non fosse incerto e misero. Un domani costruito, passo dopo passo, con fatica, sacrifici e sudore. Lacrime e sangue, qualcuno avrebbe detto!
Ma ad un tratto tutto questo sembra prossimo (?) ad essere cancellato e quella moltitudine di Gestori, moderni "braccianti" perennemente senza terra, chiamata a condividere passivamente scelte che decreteranno la loro definitiva scomparsa. Obsolescenza.
Andando in giro, in queste settimane, presso le compagnie petrolifere, turbate per essere state sollecitate in pieno agosto dal Governo a riprendere il confronto negoziale con la rappresentanza dei Gestori, abbiamo potuto toccare, con mano, il palpabile fastidio manifestato nel dover illustrare le proprie idee (?) per il futuro.
C'è un'espressione che, più di altre, caratterizza sinistramente il domani prossimo: non c'è alcuna disponibilità ad immaginare una ripresa della contrattazione che confermi i diritti dei Gestori e la loro autonomia. Basta con le "certezze" (ma quali?) normative ed economiche, dicono i petrolieri.
In sintesi: contratti più flessibili (cioè di durata più breve e senza alcuna garanzia); pochi diritti e rimessi alla “liberalità” dell’azienda; margini unitari più bassi e largamente legati ai risultati commerciali (cioè ai volumi di vendita); estensione, a tappeto, della modalità di vendita self anche durante il turno di servizio manuale. Ovviamente a margini ridotti di circa la metà.
Il tutto inserito in un quadro che non prevede alcuna cessione di sovranità da parte dell’industria petrolifera sulla definizione dei prezzi al pubblico che, perciò, continueranno, saldamente, ad essere nelle mani dei "petrolieri". Ciò determinerà, per il singolo Gestore, la possibilità di raggiungere -o meno- l'obiettivo commerciale e potrà causare finanche l’estromissione dalla gestione dell'impianto, in forza di clausole di recesso che -i petrolieri insistono- dovranno essere contenute nei nuovi contratti. Così come hanno ufficialmente comunicato al Ministero dello Sviluppo Economico nello scorso mese di luglio. I nuovi contratti, appunto.
Contratti, è giusto ricordarlo che, secondo le intenzioni dell'industria petrolifera, dovranno -a livello generale- definire solo alcune clausole "di stile", lasciando che la contrattazione si sviluppi fra il "singolo Gestore e la singola compagnia petrolifera (o retista)”. Tanto per quanto riguarda gli aspetti economici quanto quelli normativi. Alla faccia di quanto disposto con la Legge 57/01, adottata dal Parlamento della Repubblica! I petrolieri, evidentemente, si sentono al di sopra ed al di là di quella Legge che, invece, i Gestori (come nel caso dell’esclusiva) sono chiamati a rispettare.
Ora sarebbe comodo porsi la classica domanda retorica: quale "potere contrattuale" potrà mai avere il singolo Gestore costretto ad operare nella proprietà altrui (ma sulla quale già oggi paga un affitto “occulto”) a condizioni economiche e contrattuali decise da chi ha interesse ad avviare un'asta per ridurre i costi di gestione (i petrolieri la chiamano efficienza) se non quello di vendere - a basso costo- le sue prestazioni?
Un’asta di ”schiavi” di antica memoria. Una guerra fra poveri al termine della quale i Gestori usciranno con le ossa rotte ed in condizioni finanziarie (ed economiche) certamente peggiori di quelle alle quali si sono “aggiudicati” la gestione. Non si può parlare di un evidente “abuso del diritto”?
Queste domande, come è ovvio, contengono già la risposta: una risposta che, certo, non va nel verso degli interessi dei Gestori singolarmente presi, ma anche della Categoria (finché ci sarà) complessivamente assunta.
Se quello tracciato è lo scenario che si para dinanzi alla Categoria (e tutti gli indicatori lasciano intendere che questo sarà), il problema che la Categoria stessa e la sua rappresentanza organizzata hanno, è quello di organizzare una risposta. Difficile da proporre e, soprattutto, difficile da costruire in questo clima.
Una Categoria che appare divisa e frammentata molto di più di quanto sarebbe stato legittimo aspettarsi, in preda alla paranoia di segnare, pubblicamente, il distacco dal Sindacato ma, privatamente, nelle stesse sedi sindacali, lamentarsi dello status quo e rilanciare improbabili "assalti al cielo".
Sembra quasi che non ci si renda conto che, se è cambiata la situazione generale (e particolare), è maggiormente cambiata la condizione della Categoria come sommatoria evolutiva delle singole individualità; una Categoria che fatica a rendersi conto che non può avere alcuna possibilità di successo una strategia fondata sulla divisione fra manifestazioni pubbliche e comportamenti privati. Una strategia che non affondi le sue radici nella conoscenza, nella consapevolezza e nella volontà di impegnarsi. Di ciascuno.
Si va diffondendo, cioè, una divaricazione fra irragionevoli assalti al cielo e la coscienza di una quotidianità difficile, dura, fatta di puntuali rivendicazioni dei diritti, di resistenza alle pressioni, a volte assurde, delle aziende, di atteggiamenti critici, di analisi e scelte collettive. In altre parole c’è bisogno di unità. Di “fame di futuro”.
Quella “fame di futuro” che ha permesso un tempo a questa Categoria di emanciparsi da una condizione che non era dissimile da quella che i petrolieri, astoricamente, vogliono reintrodurre.
E’ indispensabile opporre ad un dualismo inesistente fra Categoria e sua rappresentanza, una forte coscienza, una coesione ed una determinazione d'altri tempi (nemmeno tanto lontani), nei quali la Categoria ha saputo tutelare, collettivamente, i propri diritti.
E’ sufficiente tornare con la memoria all'inizio degli anni duemila per rendersi conto che le residue possibilità di sopravvivenza della Categoria, oggi, risiedono in quel complesso di norme ottenute, un decennio fa’, come risultato di battaglie fatte dai Gestori. Con convinzione, chiare e condivise strategie che hanno portato alla mobilitazione la stragrande maggioranza di una Categoria che si è identificata completamente con gli obiettivi costruiti, con grande consenso, all'interno del movimento sindacale.
I Gestori, allora, sono stati capaci di opporre ad uno sterile “ribellismo” e ad una visione esasperata del “particolare”, una matura partecipazione alle scelte.
Oggi, per essere realisti, questa condizione non c'è o, almeno, è appena latente. Quasi si fosse persa, fra i Gestori, la consapevolezza si se' e dei propri diritti, insieme alla "fiducia" ragionata -non cieca e fideistica- nella possibilità del Sindacato di approntare una strategia - frutto di una riflessione collettiva- che ribalti lo stato di cose presente.
Per onestà intellettuale devo aggiungere che, comunque, il compito non è ne' semplice, ne' facile: abbattere il castello di certezze che l’industria petrolifera ha costruito pur tra mille contraddizioni e con mille sfumature. I petrolieri hanno trovato un’apparente unità di vedute: solo, però, sull’obiettivo di “abbattere il potere di veto” (?) dei Gestori e cancellare i diritti che, nel corso degli anni, la Categoria si è conquistata al prezzo di duri sacrifici.
L’impresa che comunque dobbiamo tentare appare, al punto in cui siamo, se non impossibile, almeno ardua: è necessario scommettere sulla speranza, evitando di farci immobilizzare da un “presente pietrificato” e battendoci contro la “desertificazione dell’avvenire”.
Il castello dei privilegi petroliferi è vigilato, a vista, da nuove armate della politica e dell'informazione che sono andate in questi anni ingrossandosi e che hanno sommato, a nuovi sodali del potere, vecchi arnesi disponibili a tutte le "avventure". Anche le più riprovevoli.
Detto questo non voglio dire che tutti i mali della Categoria sono frutto solo della dissennatezza di compagnie petrolifere e retisti: in altre parole non voglio assolutamente assolvere il Sindacato né sostenere che una parte di responsabilità non pesi anche sulle sue spalle. Al contrario.
Anche il Sindacato ha avuto le sue responsabilità -certamente non equamente divise fra le diverse anime che lo caratterizzano- quando ha ritenuto che un "brutto accordo" fosse comunque meglio che "nessun accordo". Che intese che potessero “limitare i danni” e mantenessero un minimo di controllo sulle dinamiche commerciali e contrattuali, fossero meglio che un loro rigetto senza tentennamenti.
Un Sindacato troppe volte "autoreferenziale" e qualche volta "scollato" rispetto ai sentimenti veri
della Categoria (o almeno di una sua parte), che non è stato in grado di fare, quando era necessario, “autocritica”.
Un Sindacato che si è diviso su aspetti importanti (e meno importanti), che ha letto diversamente -e diversamente si è comportato- ciò che stava per accadere e che non è riuscito a "fare sintesi" delle varie (legittime) posizioni.
Un Sindacato che ha una “storica allergia” al tema dell’unità e nel quale finiscono per prevalere “visioni di nicchia” piuttosto che generali.
Un Sindacato che teme il rischio di “perdere la sovranità” nel caso si avviasse, senza veti e senza tesi precostituite, una discussione seria ed a tutto campo, sul futuro e sulle ricette per uscire dal pantano nel quale la Categoria si trova e che è più incline, invece, a rivendicare una sterile primazìa. Tanto miope quanto inutile ed inconcludente.
Rivendicare un’egemonia priva di retroterra e di chiare strategie, che non affronti -pur nelle difficoltà- i problemi della gente che si vorrebbe rappresentare, è ancora più colpevole. Meschino.
Un Sindacato che oggi stenta a ricuperare il suo ruolo centrale nella dinamica delle relazioni industriali, che appare "ingessato" e “balbettante” di fronte alla rapidità con la quale l'industria petrolifera sta smantellando la distribuzione ed apparentemente senza una strategia che non sia la stanca riproposizione di un rituale vecchio. Di una liturgia consunta.
Ma i tempi sono molto diversi di quelli passati e, temo, che una presa di coscienza, da sola, non sia sufficiente ad invertire la tendenza.
Ci vuole coraggio e capacità di cogliere il nuovo: non è più tempo di rifugiarsi nel "già visto o già fatto" o cercare di "limitare i danni" immaginando che il domani ci riserverà un futuro migliore del presente.
Senza coraggio; senza innovazione; senza partecipazione; senza solidarietà; senza voglia di riformare lo stato di cose presente; senza fondare l’azione sulla difesa dei diritti inalienabili della Categoria; senza mettere in discussione le certezze di ciascuno, non c'è alcuna possibilità di futuro. Un futuro nè peggiore, nè migliore di quello attuale. Nessun futuro. Solo una Categoria che non sarà più tale, ripiegata su se stessa, piegata ai desideri del "vincitore".
Quando questo processo sarà giunto a maturazione (ed i tempi, ahimè, non appaiono lunghi), il Sindacato non servirà più.
Allora non si saranno più diritti da difendere. Allora non ci sarà più alcun futuro, alcuna speranza da inseguire.
Allora non ci sarà più la necessità di mantenere una "sovrastruttura" che abbia come unico scopo quello di sopravvivere a se stessa.
O, peggio, una struttura acquiescente e afona di fronte al processo di liquidazione della Categoria, in nome di una legittimazione (impropria), elargita, a seconda della convenienza, da una controparte vogliosa di “distruggere” i diritti dei Gestori lasciando sullo sfondo quelli della Categoria.
Una Categoria che, invece, avrebbe la necessità di costruire per continuare a vivere. Per non essere annichilita.
A me, sinceramente, questa “legittimazione” spuria non interessa: o la rappresentanza è conferita dalla “mia” Categoria o non è rappresentanza. Senza giri di parole. E’ solo un surrogato. Come l’imbevibile caffè sorbito, con disgusto, in tempo di guerra (quando si facevano, come oggi, lunghe file allo “spaccio”).
Ma anche questa posizione che può apparire un po’ manichea, da sola, non basta a leggere il divenire degli accadimenti. Non è sufficiente ad invertire la tendenza se non è supportata da atti concreti del Sindacato, da una consapevolezza diffusa all'interno della Categoria, dalla volontà di dire basta! con questo stato di cose, sconfiggendo, in primo luogo, la paura che impedisce ai Gestori di muovere le gambe. Per tornare a camminare ed a sperare. Per tornare ad essere uomini liberi e padroni del proprio destino.
Come la storia più nobile insegna, meglio morire -metaforicamente parlando- sulle barricate che per un colpo alla schiena mentre si fugge davanti al “nemico”.
Io posso parlare solo per quello che mi riguarda (e forse per la mia Federazione), ma intendo mettere sul piatto della bilancia, come contrappeso, i quasi quarant'anni di storia (forse troppo lunga) all'interno di questa Categoria.
Un'esperienza che mi ha consentito di vivere in prima persona -e non è poco- tutte le fasi della sua trasformazione: dai contratti di sei mesi ed orari di “almeno 16 ore al giorno” per tutti i giorni dell’anno -che ora le compagnie petrolifere intendono reintrodurre-, al margine pro-litro come donazione volontaria di un "principe illuminato" ai propri "sudditi", alla grande epopea iniziata nel 1970 e che si è sviluppata per quasi quarant'anni sommando conquista a conquista, diritto a diritto.
Fianco a fianco con i Gestori, condividendo le vittorie e cercando di lenire, insieme, le ferite delle sconfitte. Una stagione esaltante che non può e non deve essere conclusa nel peggiore dei modi: con una resa incondizionata senza avere neppure la voglia di combattere. Di opporsi con forza.
La FEGICA, nel corso di questi anni, con errori e contraddizioni, si è sforzata e fatta carico, comunque, di elaborare una propria strategia originale, di metterla a disposizione senza rivendicare primogeniture e ragionare su possibili intese unitarie. Intese (quella con la Faib ha quasi due anni) che andassero anche al di là dell’episodicità. Della sporadicità, per consolidarsi nel tempo ed offrire una posizione coesa come risultato degli intendimenti di un’intera Categoria, in un quadro di superamento di ciechi “interessi di bottega”.
E' stato un bene. Ma non basta.
Non basta dire "avevamo ragione noi quando ci siamo schierati contro la rottura del fronte sindacale sulla "clausola di recesso" di eni o quando abbiamo fatto la battaglia contro l'articolo 28 della Legge 111/2011 che ha aperto la strada alla diffusione delle erogazioni self (immediatamente diventate veicoli di sconti e concorrenza allo stesso Gestore nello stesso impianto) quando è presente un servizio manuale.
Non basta rilevare oggi, su quelle posizioni, inaspettate convergenze, e magari compiacersene.
Non basta perché questi accadimenti appartengono già alla storia e noi, invece, dobbiamo guardare avanti. Senza ignorare gli insegnamenti della storia (historia magistra vitae), dobbiamo spostare più avanti l’orizzonte della nostra riflessione. Se vogliamo tornare a vincere. A svolgere la nostra “mission” che si fonda sulla possibilità di offrire al confronto un “pensiero collettivo” da opporre alla visione di una controparte forte e potente.
Un intellettuale “collettivo”, informato e non ricattabile, capace di definire una strategia autonoma in nome della Categoria che rappresenta, è l’unico “soggetto” che può infondere coraggio, dare forza, voce e dignità a tante individualità disperse sul territorio (difficili da raggiungere ogni giorno). Senza indifferenza.
Anche per riscattare quei Gestori, vittime della "Sindrome di Stoccolma" che, con la partecipazione ad iniziative estive straordinarie hanno illusoriamente immaginato di mettere, in cascina, quel fieno che mancava in attesa dei tempi grami che si annunciano. Ma, come i fatti che stanno per accadere dimostreranno, è stato un errore.
Aderire a questa "pagliacciata" dell'iperelf h24 o con la definizione con la quale ciascuna Azienda lo ha declinato, al di là dei risultati di breve periodo, comporterà l'affermazione del principio di residualita' di un Gestore, che può essere sostituito, senza alcun problema, da una macchinetta mangiasoldi. Magari per pochi soldi e continuando a “sorvegliare” l’investimento della compagnia e, per una “mancia”, pulire qualche vetro (o gonfiare qualche gomma).
Per principio io -e di nuovo torno alla prima persona- non sono contro le "macchine" a differenza di come sostenne, all'inizio della rivoluzione industriale, Ned Ludd.
La “macchina”, di per se, è un valore che ha liberato una moltitudine di uomini dalla fatica e dai lavori servili rendendola padrona del proprio destino.
Io che sono per la ricerca di possibile intese e di modelli condivisi, invece, sono contro i proprietari delle “macchinette” quando, ignorando strumentalmente l’insegnamento della storia, cercano di utilizzare subdolamente questo strumento, per dimostrare che il “Gestore non serve e che può essere sostituito”. Ciò ha come effetto quello di ridurre in uno stato di prostrazione definitiva un'intera Categoria, divenuta improvvisamente ricattabile.
Quindi, per non fare confusione, voglio chiarire che una cosa sono le “macchine” ed un’altra è l’uso distorto che se ne fa’! Altro che “luddismo”. La discussione, semmai, è sulle strade che il profitto segue.
Sono comportamenti vili, volgari ed arroganti che gettano fumo negli occhi dei “semplici” ed approfittano della buona fede dei singoli. Nemmeno i Gestori fossero moderni schiavi condannati a costruire, nell’indigenza più totale, una Piramide a maggior gloria (anche economica) del proprio Faraone. Ma per gli “schiavi” non c’è mai una “lira”. Un diritto.
Per questo, con la forza di cui sono capace, dopo aver messo la mia firma sotto molti dei provvedimenti legislativi e contrattuali che hanno segnato l'evoluzione della mia Categoria, devo dire -forte e chiaro- che non accetterò mai, e dico mai, di mettere la mia firma sotto il "certificato di morte" della Categoria. Di un'esperienza che è stata insieme istruttiva ed esaltante per i grandi valori umani e sociali che ha rappresentato.
Piuttosto che accettare un ruolo “codino” o una legittimazione che mi è riconosciuta non dalla “mia” gente ma dalla mia controparte in funzione della mia disponibilità ad essere “comprensivo” (e, soprattutto, non in contrasto) l’evoluzione delle scelte aziendali preferisco, piuttosto, dopo aver denunciato questo stato di cose, lasciare il mio incarico. Sapendo, con ciò, di fare la gioia di molti.
Proprio non ce la faccio a tradire tutto ciò in cui credo e per il quale mi sono battuto. Sempre correttamente ed onestamente, in nome della mia gente e di un’idea. Un ideale “romantico” che si fonda sull’eguaglianza degli uomini, dei diritti (e dei doveri) e non sulla loro divisione per censo o opportunità. Tanto che facciano i Gestori o che siano lavoratori dipendenti delle compagnie. Ci vuole rispetto per i diritti di tutti ed i diritti, è bene ripeterlo, non sono negoziabili.
D’altra parte, nonostante sia da molti anni alla guida della mia Organizzazione, non ho poltrone o prebende da difendere, ma solo la mia integrità, dignità e moralità. La mia passione. La mia idea che il un “riscatto” sia possibile per tutti (come ho provato a dimostrare in questi anni): anche per quei “lavoratori atipici” che nel resto d’Europa hanno, da tempo, alzato le braccia in segno di resa.
E’ arrivato il momento di mettersi in discussione ed io sono pronto a farlo. Senza esitazioni.
Qualora la Categoria non dovesse -risvegliandosi da questo stato di torpore della ragione e riappropriandosi del proprio ruolo- tornare ad avere consapevolezza di sé in un quadro sindacale rinnovato; non riuscisse, per paura o “astrusi calcoli di convenienza di breve periodo”, a scegliere fra il “collaborazionismo” o la contrapposizione a difesa dei propri diritti; non scegliesse di pretendere, anche a prezzo di una dura lotta e durissimi sacrifici, che venga messa la parola fine allo "scippo" delle sue speranze e del suo futuro, le conclusioni sarebbero uniche ed inevitabili.
Uno scippo che petrolieri, retisti e Governo, si accingono a concretizzare con atti che diventeranno -in men che non si dica- inoppugnabili. Poi sarà troppo tardi ed il silenzio proverà a calare sui nostri problemi.
Ma dobbiamo avere anche la consapevolezza che il destino (ed il futuro) della nostra Categoria è ancora nelle nostre mani e saranno le decisioni che assumeremo ad orientarlo in una direzione piuttosto che in un’altra.
Certo, resisteremo in tutti i luoghi ed in tutte le forme possibili. Daremo battaglia in ogni dove e con tutta la capacità (e le risorse) che abbiamo.
Anche nelle aule dei Tribunali per veder riconosciuti i diritti della Categoria e sanzionati i comportamenti illegittimi (non mi spingo a dire illeciti lasciando che la Magistratura si pronunci) messi in atto in questi ultimi tre anni da compagnie petrolifere e retisti (con la complicità di Governi e governanti -ma non solo- sui cui interessi è preferibile non approfondire).
Vincere o perdere nelle aule di giustizia non attenua però né l’urgenza di un’analisi generale, né l’approfondimento dell'essenza del problema: senza una consapevole partecipazione dei Gestori, non c'è alcuna Giustizia che possa rendere una vera giustizia ad una intera Categoria, che possa riparare i soprusi che sta sopportando nel silenzio più totale e nell’indifferenza di chi avrebbe il dovere -anche istituzionale, in uno stato democratico- di tenere conto della parte contrattualmente più debole: i Gestori.
Il Governo, da parte sua, dopo aver negato il diritto alla liberalizzazione vera del settore non si può permettere di trattare questa Categoria alla stregua dei petrolieri. Peculiarità, forza contrattuale, possibilità economiche sono completamente sbilanciate a favore delle compagnie petrolifere. E non servono “professori” per rendersi conto di questa incontestabile verità. Proprio alla vigilia di quelle iniziative sui contratti che il Ministero -anziché trovare un punto di convergenza- ha deciso di assumere entro settembre.
Non basta appellarsi al “potere costituito”: occorre invece una straordinaria mobilitazione ed una convinta partecipazione ad un processo di rilancio dei temi proposti dalla Categoria. Ma non sono in grado, oggi, di affermare con certezza che questa convinta partecipazione ci sarà.
Ma, se verranno stracciati gli iniqui impegni sottoscritti sotto il ricatto della paura e della violenza psicologica messa in atto con tutti gli strumenti di "persuasione occulta" a cui petrolieri e retisti hanno dato fondo; se la Categoria darà segni di ripresa della visione generale e si ritroverà sotto le "bandiere" dello sviluppo e della difesa dei propri diritti, se l’autocritica del Sindacato riuscirà ad aprire le porte ad una nuova stagione improntata alla solidarietà allora e solo allora, potremo immaginare di intuire la luce fuori dal “pozzo” nel quale siamo stati (e ci siamo) cacciati.
Come ho già scritto, contro il pessimismo della ragione può prevalere, l’ottimismo della volontà. E dobbiamo lavorare perché ciò accada.
Per questo, per un’ultima volta, voglio provare ad essere l’ottimista di sempre lanciando, su queste problematiche, entro il prossimo mese di Ottobre, la proposta un'Assise Nazionale aperta a tutte le rappresentanze sindacali ed a tutti i Gestori che vorranno partecipare, per definire una strategia della durata di 12/24 mesi nel corso dei quali sostenere, con una forte mobilitazione, dieci punti qualificanti per rilanciare ruolo e diritti della Categoria dei Gestori. Punti da scrivere tutti insieme sulla scorta delle singole sensibilità e delle singole esperienze.
Una sorta di “Convenzione Nazionale”, come quella che portò i cittadini francesi a riscrivere le regole della convivenza e mettere così fine alla protervia ed all’arroganza dei nobili che avevano, per secoli, calpestato i diritti della popolazione. Forse è un’idea ambiziosa, ma dobbiamo comunque provare ad uscire dagli schemi consueti.
Anche rivalutando, e sarebbe ora, l'iniziativa della chiusura degli impianti e la doverosa "disubbidienza civile" sul servizio minimo da garantire durante lo sciopero.
Contro questo feroce attacco dell'industria petrolifera spalleggiata da retisti e alcune forze politiche contraddistintesi per la “vicinanza” ai petrolieri, manifestare il proprio sdegno non solo è legittimo e sacrosanto, ma è doveroso. Per i Gestori, per le loro famiglie spogliate di ogni certezza dall'arroganza di qualche “ducetto” di ritorno. Per l'intera Categoria.
Che io metta sul piatto della bilancia il mio disimpegno -in un Paese nel quale nessuno rinuncia al proprio mandato- non ha alcun rilievo se non la dimostrazione della volontà di rilanciare, ad un uditorio sordo alle richieste ed ai diritti di una moltitudine di lavoratori, un grido urlato contro l'imbarbarimento del settore e contro l'appiattimento acritico e fatalista sulle posizioni considerate vincenti. In mancanza di controprove.
Vedremo poi la storia, se non sarà troppo tardi, quale lettura darà degli avvenimenti di questi mesi.
Forse, e sottolineo il forse, il Sindacato nella sua complessità dovrebbe valutare, ove dovesse perdurare questa impossibilità di fatto ad esercitare la rappresentanza che non sia residuale, di sciogliersi definitivamente. Almeno nell’assetto attuale. Ma questo attiene alla sensibilità, al rigore dell’analisi di ciascuno ed alla dialettica democratica che si svolge all’interno di ogni Organizzazione.
Temi sui quali non mi arrischio ad entrare. Soprattutto in casa d’altri.
La rappresentanza la si esercita o non la si esercita. Un mandato lo si ha o non lo si ha. E quando si dovesse appurare di esercitarlo o averlo, ci si dovrebbe interrogare sulla possibilità di averlo ed esercitarlo nel modo corretto a tutela della Categoria e dei suoi interessi.
Diversamente, chi decidesse di rimanere abbarbicato al proprio piccolo potere (?) finirebbe per diventare residuale rispetto ai processi storici di evoluzione del settore. O, come superficialmente oggi si liquida superficialmente il fenomeno, “casta”.
Di ciò è necessario che ciascuno -a cominciare dal singolo Gestore che deve scegliere sapendo quale futuro lo attende per finire con il Sindacato che deve assumersi le responsabilità di scelte non più rinviabili- prenda atto. Solo da qui può partire quel “nuovo inizio” di cui la Categoria ha bisogno.
Questo autunno, la situazione impone che il primo obiettivo da perseguire sia quello di definire poche ma chiare scelte: “Cosa fare. Come. Con chi. Con quale strategia. Perché. Con quali risultati prevedibili”. Senza chiusure ma anche senza scorciatoie.
Troppo tempo è stato speso invano per cercare di rendere “accettabili” scelte che hanno, invece, spinto la Categoria nel baratro del non ritorno.
Per questo insisto sulla necessità di uno scatto d’orgoglio, di una presa di coscienza, di una manifestazione palese di coraggio contro il fatalismo e l’adagiamento. L’industria petrolifera (ed i retisti) è altro e non possiamo costruire la nostra storia senza sottolineare le differenze sostanziali che dividono -sopratutto in questo momento- i Gestori dalle loro controparti. Una lotta che, stante la “posta in palio”, non può prevedere un risultato di parità.
Per questo anche la mia presenza sarebbe inutile, se dall’evoluzione di questo processo non verrà un segnale chiaro ed inequivocabile di inversione di tendenza. Lo dico senza enfasi, con piena consapevolezza ed in piena umiltà.
In fondo penso di aver fatto la mia parte e di aver contribuito a dimostrare che una Categoria di lavoratori, sostanzialmente dipendenti ma equiparati a piccoli imprenditori (?), possa prendere coscienza della propria condizione e scegliere di combattere per cambiarla. Anche riuscendoci per circa trent’anni. Contro un potere fortissimo cui si è opposta una granitica convinzione.
Mi sembra, fosse solo questo, un successo di grandi proporzioni che nemmeno tutti hanno avuto la sensibilità, la gioia e la consapevolezza di condividere.
E il domani, come potrebbe dire qualcuno con più senno del mio, quale sarà?
Il domani è il risultato delle scelte che oggi facciamo. Della lettura degli accadimenti del passato e delle iniziative che saremo capaci, tutti insieme, di assumere.
Il domani ed il nostro futuro o lo scriveremo insieme su uno spartito tutto nuovo, o saremo, tutti, costretti a lasciare una pagina bianca, a testimonianza della nostra ignavia presente.
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